A metà agosto i lavoratori della miniera Lonmin nei pressi di Marikana in Sud Africa ebbero notevole spazio sui mezzi di informazione a seguito degli scontri con le forze di polizia, durante i quali ci furono oltre quaranta morti ed almeno settantotto feriti. I bassi salari e le condizioni di lavoro erano stati la causa scatenante dello sciopero iniziato ai primi di quel mese; tuttavia, come da abitudine, la notizia non fu stimolo per approfondire ed analizzare sui media a grande diffusione relativamente alla situazione sociale nel Sud Africa contemporaneo e, placato il clamore suscitato dalle violenze tra scioperanti e forze di polizia, non si è saputo più molto. Lo sciopero è proseguito per circa sei settimane, fino a che il 19 settembre la proprietà ha accordato aumenti salariali del 20%; con scene di giubilo per le strade da parte dei lavoratori, che a breve riprenderanno la produzione. Tramite l'azione unitaria i minatori della Lonmin hanno ottenuto il miglioramento delle condizioni generali di lavoro ed alcune concessioni a richieste specifiche volte ad un miglioramento delle condizioni lavorative, fungendo da esempio per gli altri lavoratori del settore, in un paese dove la fine dell'apartheid ha allargato gli spazi di agibilità democratica alla popolazione nera ma non ha democratizzato la redistribuzione della ricchezza. Il caso della miniera Lomin non è isolato e non riguarda solo i lavoratori del settore minerario; tuttavia il fronte caldo è quello dei minatori, che da settimane marciano in segno di protesta e scioperano per richiedere aumenti salariali che adeguino le paghe al costo della vita. La risposta padronale è stata sinora violenta, imperniata sul ricatto dei licenziamenti di massa o sul ricorso alle forze di polizia il cui compito di mantenere l’ordine spesso coincide con la tutela delle aziende minerarie. A fronte della situazione, il presidente Jacob Zuma, del partito ANC di cui Mandela fu leader, ha invocato l'uso dell'esercito, come nei casi di emergenza, trovando l'opposizione non solo dei lavoratori ma anche del sindacato Cosatu e rischiando di alienarsi la propria base elettorale, sempre più insofferente di fronte alle politiche neoliberista del dopo-apartheid.
In questi stessi giorni, dall'altra parte dell'Atlantico, in Bolivia, la divisione tra lavoratori del settore minerario ha lasciato sul campo un morto e forti tensioni tra i minatori, gettando oscure ombre sul processo di riappropriazione delle risorse del sottosuolo da parte del popolo boliviano tramite le nazionalizzazioni nel settore. Lo scontro è avvenuto nelle strade di La Paz, durante un corteo dei dipendenti cooperativa che lavorano presso la miniera Colquiri, nazionalizzata lo scorso giugno dal governo socialista di Evo Morales. Costoro, durante un corteo nella capitale La Paz si sono scagliati contro la sede del sindacato minerario, che rappresenta una grande fetta dei minatori dipendenti della società statale proprietaria della miniera, gettando candelotti di dinamite contro l’edificio e uccidendo Héctor Choque. Si tratta dell’ultimo episodio in cui sono sfociate le tensioni tra minatori iniziate ad agosto e che hanno visto i minatori sindacalizzati occupare una parte della miniera per impedire ai colleghi della cooperativa di potervi accedere. La ragion del contendere è lo sfruttamento di alcuni giacimenti molto ricchi che, secondo i dipendenti dell’azienda di Stato, sarebbero stati loro attribuiti dal governo tramite accordi, successivamente non rispettati, lasciando la nazionalizzazione della miniera incompleta. Successivamente agli scontri di La Paz il governo nazionale ha richiesto una tregua di quarantotto ore ed ha riaperto un dialogo con i rappresentanti della cooperativa per trovare una soluzione di compromesso o un eventuale trasferimento dei minatori “indipendenti” presso un altro giacimento. Il rischio, non remoto in questa nuova fase di manovre statunitensi nell’America Latina, è che la divisione dei minatori e le animate proteste non producano alcun esito positivo per alcuna delle due parti e portino maggior consenso a quelle forze politiche che negli anni ’80 e ’90 svendettero le risorse nazionali alle imprese straniere.
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