Confermando i sondaggi e le analisi pre-elettorali, Hugo Chávez ha ottenuto un terzo mandato alla Presidenza della Repubblica venezuelana. Con disappunto di quelle forze economico-sociali interne ed esterne al paese che avrebbero voluto porre fine all'esperienza del Socialismo del XXI, avviata quasi tre lustri fa. Un'esperienza ed una vittoria elettorale che sono imperniate sulla costruzione di un modello economico in cui lo stato gioca un ruolo primario nel controllo delle risorse e nella redistribuzione della ricchezza, in opposizione ad un passato che vedeva un'oligarchia ricca a fianco di larghe fasce della popolazione in povertà e senza accesso a servizi come sanità ed istruzione. Non mancano le ombre in un sistema fortemente dipendente dalla produzione e dall'esportazione del petrolio, in cui persistono inflazione, corruzione e criminalità violenta, per stessa ammissione del rieletto presidente. Sufficiente, per i detrattori, a decretare il fallimento del modello; il che suona ridicolo quando tali commenti provengo dal Nord del mondo, entrato in una lunga recessione ed avviato su una china che lo porta verso standard da Terzo Mondo dopo tre decenni consecutivi di politiche neoliberiste. Se il modello è fallimentare, il largo sostegno alla figura che lo incarna più di tutti non ha senso, a meno che non si denigrino gli elettori come immaturi, proni ai canti delle sirene populiste, o si bolli il governo dittatura, passando in cavalleria i fatti e la loro interpretazione. Ecco quindi che nella vulgata tanto dei destrorsi quando dei cosiddetti riformisti il 55% dei voti espressi per Chávez, un distacco di oltre dieci punti sul principale sfidante ed un incremento di un milione e mezzo dei consensi rispetto alla tornata precedente rappresentano una sconfitta del dittatore populista, un indice del crescente supporto verso l'opposizione, naturalmente democratica in quanto funzionale agli interessi occidentali. Ecco, dunque, le accuse di brogli, nonostante i vari osservatori internazionali presenti non ne abbiano riscontrati e l'ex presidente statunitense Jimmy Carter abbia definito il modello elettorale venezuelano uno dei più democratici. Infine, ecco giustificare la scelta di otto milioni di elettori con il clientelismo, lo scambio del sostegno politico con l'offerta di sanità ed istruzione pubbliche e gratuite, con i piani di edilizia popolare, con i progetti di assistenza sociale. Eppure, il modello di stato sociale europeo del secondo dopoguerra che si basava sull'universalità e la gratuità dell'istruzione, nonchė su ampi piani di edilizia pubblica, fu implementato prevalentemente da governi moderati o conservatori, sempre elevati a baluardo della democrazia e della libertà contro il pericolo della dittatura rossa. In tutti i paesi occidentali le promulgazione delle leggi elettorali è appannaggio dei parlamenti, che privilegiano la riproduzione delle forze dominanti, introducendo limiti e vincoli che orientano l'elettorato a sostenere i partiti con maggiore visibilità sui mezzi di comunicazione o modellando i collegi in modo da dar maggiore peso ad una parte piuttosto che ad un'altra, come stanno tentando di fare i Conservatori nel Regno Unito o hanno fatto alcuni governatori negli Stati Uniti; senza scomodare il voto di scambio e le collusioni mafiose in Italia, o il controverso caso del voto presidenziale in Florida nel 2000, cancellato dalle cronache e dalla memoria collettiva con un colpo di spugna.
Ordunque, dov'è la democrazia? Cosa è la democrazia una volta estrapolatala dal vocabolario? Attualmente è un semplice strumento di propaganda, con cui giustificare guerre ed osteggiare ogni forma di alternativa al sistema dominante; è opportuno riappropriarcene, riempire la parola dei contenuti di partecipazione popolare, attiva, che le dovrebbero esser propri. Sarebbe un primo passo verso quella rivoluzione culturale che non può che essere il preludio ad un cambio verso altro dal capitalismo.
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